Gli allegati di "Segnalazioni"
lunedì 23 maggio 2016
venerdì 13 maggio 2016
lunedì 1 febbraio 2016
Corriere La Lettura 31.1.16
Johann Jakob Bachofen
Il padre del matriarcato
La monumentale ricerca del giurista e antropologo svizzero torna in una nuova edizione senza perdere il suo fascino originario
Tradusse leggi, indagò miti, lesse documenti Così il genio di Bachofen svelò al mondo l’antico diritto e il potere storico delle donne
di Emanuele Trevi
Quando pubblicò Il matriarcato , nel 1861, Johann Jakob Bachofen, svizzero di Basilea, aveva appena superato i quarantacinque anni: età più considerevole ai suoi tempi che oggi, ma nemmeno a quei tempi veneranda. Era il rampollo di una delle più insigni (e ricche) famiglie patrizie della sua città, e fin da giovane si era consacrato a studi severissimi, nelle migliori università tedesche ed europee, diventando precocemente uno dei massimi esperti del diritto romano. Aveva a sua volta insegnato, e ricoperto importanti cariche di magistrato, come volevano le tradizioni del suo ceto. Ma era libero di vivere seguendo esclusivamente le sue inclinazioni, e finì per dedicarsi esclusivamente alla sua fame di sapere, e alla passione per i viaggi.
Spirito laborioso e metodico, la sua erudizione in fatto di storia antica, archeologia, mitologia divenne immensa. I paesaggi della campagna romana o del Peloponneso non erano diversivi turistici, ma occasioni per affinare e precisare le sue conoscenze storiche. È difficile fare illazioni sull’uomo capaci di perforare la severa dignità delle apparenze. Che si sia sposato solo a cinquant’anni, dopo la morte della madre amatissima, è un fatto che non può essere interpretato con i maliziosi criteri odierni.
Anche a guardare i suoi ritratti, che sembrano l’esatto contrario dell’immagine dell’artista romantico, sarebbe impossibile sospettare in Bachofen uno spirito talmente geniale e visionario da rasentare la follia. Di sicuro, durante la lunga fatica che doveva portarlo alla pubblicazione del Matriarcato , il suo entusiasmo era nutrito dalla consapevolezza di una scoperta capace di rivoluzionare tutto ciò che si sapeva sulla storia del mondo greco-romano, e più in generale delle antiche civiltà mediterranee. Non era il solo uomo del suo tempo ad avere accumulato un sapere quasi inconcepibile per un singolo individuo. Ma un erudito, di per sé, è solo il proprietario di un’immensa massa di macerie, informe e tarlata di contraddizioni. Pochi sono in grado di compiere quel salto mortale che solo può condurre dal sapere al comprendere. E ancora minore è il numero di coloro a cui tocca in sorte il pensare qualcosa che nessuno ha mai pensato prima.
Nonostante la compostezza dello stile, alieno da inutili effusioni, queste emozioni trapelano nitidamente nelle prime righe del Matriarcato , ora riedito da Einaudi, che sono la promessa di un viaggio mai tentato dallo spirito umano. «La presente opera affronta un fenomeno storico di cui pochi tennero conto e di cui nessuno valutò a fondo la portata. Le scienze che studiano l’antichità hanno continuato a ignorare fino ad oggi il diritto materno: nuova è tale espressione, e sconosciuta è la condizione familiare che essa designa».
Ecco l’oggetto misterioso, o meglio la chiave d’accesso al mistero che è la nostra storia, quando cerchiamo di decifrarne le origini. Noi diamo al capolavoro di Bachofen un titolo, Il matriarcato , che rende omaggio alla sua idea più memorabile e affascinante. Ma il titolo originale è Das Mutterrecht , ovvero il diritto materno. Il matriarcato o la ginecocrazia, ovvero «il potere delle donne», non è un’oscura favola, ma una fase capitale della storia umana. Un’epoca in cui la madre prevale sul padre nel sentimento dell’esistenza, così come è testimoniato dai miti, dai racconti degli storici, dalle leggi.
Per ricostruire quest’epoca dimenticata, Bachofen passa al vaglio, con sovrumana pazienza, le migliaia di testimonianze che ha raccolto (a un certo punto, appare anche una poesia del «conte Leopardi»!). Erodoto racconta che gli abitanti della Licia ereditavano il nome della madre e si trasmettevano i beni in linea femminile. Non è la notizia bizzarra di uno storico curioso di costumi esotici, ma la tessera di un immenso puzzle le cui tessere sono sparse su tutte le rive del Mediterraneo. Il potere delle donne è un istituto giuridico e nello stesso tempo un sistema simbolico, un’interpretazione totale della vita, una religione. La mano sinistra prevale sulla destra, la notte sul giorno, la luna sul sole. Dei fratelli, è l’ultimo nato il più importante. Tra gli esseri viventi prevale un senso di pace e fratellanza, conseguenza della consapevolezza di essere generati dalla stessa terra e di dover presto ritornare, con la morte, nel suo grembo.
Bachofen immaginò quest’epoca della storia umana con tanta intensità che ne immagino addirittura il paesaggio fisico, nel quale la vegetazione palustre, simbolo della spontaneità della vita, soverchiava i campi arati. Il fatto è che Bachofen, e proprio in questo consiste il fascino indelebile delle sue pagine, non distingue un mito da una legge, la testimonianza approvata di uno storico dalla decorazione di un vaso o di una tomba. Non ci sono documenti antichi più o meno «veri» di altri. Esistono solo modi diversi di tradurre la stessa esperienza umana. Anche le parole di un eroe di Omero sono un documento storico.
In una pagina che meriterebbe di figurare in tutte le antologie della prosa, Bachofen interpreta alla luce del diritto materno un bellissimo e celebre episodio dell’ Iliade . Prima di affrontarlo in duello, il greco Diomede chiede al suo avversario, Glauco, notizie sulla sua stirpe. Diomede è un greco, figlio di una cultura patriarcale, fondata sulla discendenza dai padri e sulla sottomissione della donna. Per lui è naturale chiedere cavallerescamente al nemico chi sia suo padre. Ma Glauco è un Licio. E gli risponde da Licio. In pratica, dichiara a Diomede che la sua domanda è insensata, dal suo punto di vista. Non esistono i padri e i figli, dice Glauco a Diomede, perché gli uomini sono come le foglie. Nascono tutti dallo stesso tronco e quando viene il loro momento cadono tutti a terra nello stesso modo. Nessuno discende da nessuno.
Bachofen considera questi versi di Omero, sempre ammirati per la loro bellezza, il riflesso di una condizione di esistenza, vale a dire di qualcosa che ha avuto luogo nella realtà. Un’organizzazione sociale e religiosa fondata sul predominio della madre e destinata a essere soppiantata, non senza conflitti molto aspri, dal principio maschile e paterno.
Distacchiamoci adesso dal grandioso scenario dipinto da Bachofen per considerarne il totale insuccesso tra i contemporanei. Da un certo punto di vista, il poderoso libro di Bachofen sembrava fatto apposta per non essere letto da nessuno. Alla solita meditazione sulla genialità e la solitudine bisogna aggiungere il ricordo ben più concreto di un tipografo folle, che ebbe l’assurda idea di mescolare un testo già lungo e impegnativo con le migliaia di note che dovevano corredarlo di tutte le indicazioni bibliografiche ed erudite. Ne venne fuori quello che il nostro più importante studioso di Bachofen, Furio Jesi, ha definito «un orrido groviglio» stampato su due colonne. Poteva capitare che una frase, cominciata a una data pagina, finisse soltanto a metà di quella successiva.
Che cosa ne avrà pensato l’autore? In qualche modo, quella catastrofe aveva qualcosa di simile alla sua mente poderosa e labirintica. Fatto sta che quando, dopo la sua morte, la vedova e il figlio provvidero a una ristampa, ripeterono la stessa assurdità, accompagnata questa volta da un numero esorbitante di errori di stampa. Forse non erano del mestiere, ma si sarebbero comportati così se Bachofen si fosse molto lamentato della prima edizione?
Lui era morto a settantadue anni, nel 1887, nel più completo isolamento intellettuale. Non cambiò mai idea, a quanto pare, su quella «poesia della storia», come la definiva, che era l’epoca del potere femminile. Sarebbe stato assurdo obiettargli che il matriarcato, come l’immane guerra tra i sessi che ne aveva dichiarato la fine e instaurato il potere del maschio, erano cose accadute solo nella sfera del mito e non sul piano della realtà. Perché tutta l’impresa di Bachofen si basa su un atto di fede fondamentale: il mito è realtà, traccia di una realtà vissuta non meno di un utensile o delle rovine di un’abitazione o di una norma giuridica. «Abbiamo di fronte a noi non finzioni, ma destini vissuti», affermava con una certezza che si addice più al poeta romantico che al filologo.
Ma la sorte del Matriarcato è tutt’altro che un argomento malinconico. Semmai, è una lezione istruttiva sulla potenza delle grandi visioni, che, come certi organismi naturali, resistono e si rafforzano nelle condizioni avverse, sanno aspettare il loro momento. A volte bastano dieci lettori per traghettare un capolavoro misconosciuto sulle acque oscure della dimenticanza. Oggi Il matriarcato ci appare pienamente comprensibile a un livello della verità che non è quello dell’archeologia o della storia del diritto, ma quello delle opere d’arte.
Più che a Friedrich Nietzsche, che non ne nutriva una grandissima stima, Bachofen sembra accostabile all’altro grande profeta inascoltato del suo tempo, Herman Melville. Potremmo affermare che Il matriarcato sta alla storia antica come Moby Dick sta alla caccia alla balena. In entrambi i casi, si tratta di una lettura indimenticabile, di quelle capaci di trasformare la vita. In ogni forma di espressione umana, nel romanzo come negli studi storici, esistono regole fondate sul buon senso e su una certa dose di conformismo. Ma se in determinati momenti non spuntassero fuori spiriti eretici e infiammati come Melville e Bachofen, tutto il resto si ridurrebbe al ben misero bottino delle carriere accademiche e dei premi letterari.
Johann Jakob Bachofen
Il padre del matriarcato
La monumentale ricerca del giurista e antropologo svizzero torna in una nuova edizione senza perdere il suo fascino originario
Tradusse leggi, indagò miti, lesse documenti Così il genio di Bachofen svelò al mondo l’antico diritto e il potere storico delle donne
di Emanuele Trevi
Quando pubblicò Il matriarcato , nel 1861, Johann Jakob Bachofen, svizzero di Basilea, aveva appena superato i quarantacinque anni: età più considerevole ai suoi tempi che oggi, ma nemmeno a quei tempi veneranda. Era il rampollo di una delle più insigni (e ricche) famiglie patrizie della sua città, e fin da giovane si era consacrato a studi severissimi, nelle migliori università tedesche ed europee, diventando precocemente uno dei massimi esperti del diritto romano. Aveva a sua volta insegnato, e ricoperto importanti cariche di magistrato, come volevano le tradizioni del suo ceto. Ma era libero di vivere seguendo esclusivamente le sue inclinazioni, e finì per dedicarsi esclusivamente alla sua fame di sapere, e alla passione per i viaggi.
Spirito laborioso e metodico, la sua erudizione in fatto di storia antica, archeologia, mitologia divenne immensa. I paesaggi della campagna romana o del Peloponneso non erano diversivi turistici, ma occasioni per affinare e precisare le sue conoscenze storiche. È difficile fare illazioni sull’uomo capaci di perforare la severa dignità delle apparenze. Che si sia sposato solo a cinquant’anni, dopo la morte della madre amatissima, è un fatto che non può essere interpretato con i maliziosi criteri odierni.
Anche a guardare i suoi ritratti, che sembrano l’esatto contrario dell’immagine dell’artista romantico, sarebbe impossibile sospettare in Bachofen uno spirito talmente geniale e visionario da rasentare la follia. Di sicuro, durante la lunga fatica che doveva portarlo alla pubblicazione del Matriarcato , il suo entusiasmo era nutrito dalla consapevolezza di una scoperta capace di rivoluzionare tutto ciò che si sapeva sulla storia del mondo greco-romano, e più in generale delle antiche civiltà mediterranee. Non era il solo uomo del suo tempo ad avere accumulato un sapere quasi inconcepibile per un singolo individuo. Ma un erudito, di per sé, è solo il proprietario di un’immensa massa di macerie, informe e tarlata di contraddizioni. Pochi sono in grado di compiere quel salto mortale che solo può condurre dal sapere al comprendere. E ancora minore è il numero di coloro a cui tocca in sorte il pensare qualcosa che nessuno ha mai pensato prima.
Nonostante la compostezza dello stile, alieno da inutili effusioni, queste emozioni trapelano nitidamente nelle prime righe del Matriarcato , ora riedito da Einaudi, che sono la promessa di un viaggio mai tentato dallo spirito umano. «La presente opera affronta un fenomeno storico di cui pochi tennero conto e di cui nessuno valutò a fondo la portata. Le scienze che studiano l’antichità hanno continuato a ignorare fino ad oggi il diritto materno: nuova è tale espressione, e sconosciuta è la condizione familiare che essa designa».
Ecco l’oggetto misterioso, o meglio la chiave d’accesso al mistero che è la nostra storia, quando cerchiamo di decifrarne le origini. Noi diamo al capolavoro di Bachofen un titolo, Il matriarcato , che rende omaggio alla sua idea più memorabile e affascinante. Ma il titolo originale è Das Mutterrecht , ovvero il diritto materno. Il matriarcato o la ginecocrazia, ovvero «il potere delle donne», non è un’oscura favola, ma una fase capitale della storia umana. Un’epoca in cui la madre prevale sul padre nel sentimento dell’esistenza, così come è testimoniato dai miti, dai racconti degli storici, dalle leggi.
Per ricostruire quest’epoca dimenticata, Bachofen passa al vaglio, con sovrumana pazienza, le migliaia di testimonianze che ha raccolto (a un certo punto, appare anche una poesia del «conte Leopardi»!). Erodoto racconta che gli abitanti della Licia ereditavano il nome della madre e si trasmettevano i beni in linea femminile. Non è la notizia bizzarra di uno storico curioso di costumi esotici, ma la tessera di un immenso puzzle le cui tessere sono sparse su tutte le rive del Mediterraneo. Il potere delle donne è un istituto giuridico e nello stesso tempo un sistema simbolico, un’interpretazione totale della vita, una religione. La mano sinistra prevale sulla destra, la notte sul giorno, la luna sul sole. Dei fratelli, è l’ultimo nato il più importante. Tra gli esseri viventi prevale un senso di pace e fratellanza, conseguenza della consapevolezza di essere generati dalla stessa terra e di dover presto ritornare, con la morte, nel suo grembo.
Bachofen immaginò quest’epoca della storia umana con tanta intensità che ne immagino addirittura il paesaggio fisico, nel quale la vegetazione palustre, simbolo della spontaneità della vita, soverchiava i campi arati. Il fatto è che Bachofen, e proprio in questo consiste il fascino indelebile delle sue pagine, non distingue un mito da una legge, la testimonianza approvata di uno storico dalla decorazione di un vaso o di una tomba. Non ci sono documenti antichi più o meno «veri» di altri. Esistono solo modi diversi di tradurre la stessa esperienza umana. Anche le parole di un eroe di Omero sono un documento storico.
In una pagina che meriterebbe di figurare in tutte le antologie della prosa, Bachofen interpreta alla luce del diritto materno un bellissimo e celebre episodio dell’ Iliade . Prima di affrontarlo in duello, il greco Diomede chiede al suo avversario, Glauco, notizie sulla sua stirpe. Diomede è un greco, figlio di una cultura patriarcale, fondata sulla discendenza dai padri e sulla sottomissione della donna. Per lui è naturale chiedere cavallerescamente al nemico chi sia suo padre. Ma Glauco è un Licio. E gli risponde da Licio. In pratica, dichiara a Diomede che la sua domanda è insensata, dal suo punto di vista. Non esistono i padri e i figli, dice Glauco a Diomede, perché gli uomini sono come le foglie. Nascono tutti dallo stesso tronco e quando viene il loro momento cadono tutti a terra nello stesso modo. Nessuno discende da nessuno.
Bachofen considera questi versi di Omero, sempre ammirati per la loro bellezza, il riflesso di una condizione di esistenza, vale a dire di qualcosa che ha avuto luogo nella realtà. Un’organizzazione sociale e religiosa fondata sul predominio della madre e destinata a essere soppiantata, non senza conflitti molto aspri, dal principio maschile e paterno.
Distacchiamoci adesso dal grandioso scenario dipinto da Bachofen per considerarne il totale insuccesso tra i contemporanei. Da un certo punto di vista, il poderoso libro di Bachofen sembrava fatto apposta per non essere letto da nessuno. Alla solita meditazione sulla genialità e la solitudine bisogna aggiungere il ricordo ben più concreto di un tipografo folle, che ebbe l’assurda idea di mescolare un testo già lungo e impegnativo con le migliaia di note che dovevano corredarlo di tutte le indicazioni bibliografiche ed erudite. Ne venne fuori quello che il nostro più importante studioso di Bachofen, Furio Jesi, ha definito «un orrido groviglio» stampato su due colonne. Poteva capitare che una frase, cominciata a una data pagina, finisse soltanto a metà di quella successiva.
Che cosa ne avrà pensato l’autore? In qualche modo, quella catastrofe aveva qualcosa di simile alla sua mente poderosa e labirintica. Fatto sta che quando, dopo la sua morte, la vedova e il figlio provvidero a una ristampa, ripeterono la stessa assurdità, accompagnata questa volta da un numero esorbitante di errori di stampa. Forse non erano del mestiere, ma si sarebbero comportati così se Bachofen si fosse molto lamentato della prima edizione?
Lui era morto a settantadue anni, nel 1887, nel più completo isolamento intellettuale. Non cambiò mai idea, a quanto pare, su quella «poesia della storia», come la definiva, che era l’epoca del potere femminile. Sarebbe stato assurdo obiettargli che il matriarcato, come l’immane guerra tra i sessi che ne aveva dichiarato la fine e instaurato il potere del maschio, erano cose accadute solo nella sfera del mito e non sul piano della realtà. Perché tutta l’impresa di Bachofen si basa su un atto di fede fondamentale: il mito è realtà, traccia di una realtà vissuta non meno di un utensile o delle rovine di un’abitazione o di una norma giuridica. «Abbiamo di fronte a noi non finzioni, ma destini vissuti», affermava con una certezza che si addice più al poeta romantico che al filologo.
Ma la sorte del Matriarcato è tutt’altro che un argomento malinconico. Semmai, è una lezione istruttiva sulla potenza delle grandi visioni, che, come certi organismi naturali, resistono e si rafforzano nelle condizioni avverse, sanno aspettare il loro momento. A volte bastano dieci lettori per traghettare un capolavoro misconosciuto sulle acque oscure della dimenticanza. Oggi Il matriarcato ci appare pienamente comprensibile a un livello della verità che non è quello dell’archeologia o della storia del diritto, ma quello delle opere d’arte.
Più che a Friedrich Nietzsche, che non ne nutriva una grandissima stima, Bachofen sembra accostabile all’altro grande profeta inascoltato del suo tempo, Herman Melville. Potremmo affermare che Il matriarcato sta alla storia antica come Moby Dick sta alla caccia alla balena. In entrambi i casi, si tratta di una lettura indimenticabile, di quelle capaci di trasformare la vita. In ogni forma di espressione umana, nel romanzo come negli studi storici, esistono regole fondate sul buon senso e su una certa dose di conformismo. Ma se in determinati momenti non spuntassero fuori spiriti eretici e infiammati come Melville e Bachofen, tutto il resto si ridurrebbe al ben misero bottino delle carriere accademiche e dei premi letterari.
Il Sole Domenica 31.1.16
Il mondo islamico
Per capire il velo e l’iconoclastia
di Maria Bettetini
Forse anche la bellezza, ma sicuramente sarà la sapienza a salvare il mondo. Sarà la lotta all’ignoranza, guerra che senza droni e con poca spesa darebbe vita a un’umanità non peggiore, più sana di quella che oggi si massacra. Una guerra che comincia a casa. Sappiamo poco di Islam, e ne parliamo come se sapessimo, emaniamo giudizi secondi solo, per quantità, a quelli sulla formazione della Nazionale per gli Europei. D’altra parte, non ha senso iniziare la lettura del Corano, che parla un linguaggio sacro lontano dalla sensibilità del contemporaneo. Può essere utile, al contrario, cercarvi citazioni, una volta raggiunta la chiave di lettura di un concetto, ricordando che andrebbe comunque letto in lingua originale. Nella messe di pubblicazioni, soprattutto instant-book, di questi ultimi mesi tristemente costellati da assassinii e brutture in nome di un Dio poco noto all’Occidente, scegliamo alcuni volumi che permettono profondità. Il primo tocca un argomento sul quale pensiamo, di nuovo, di sapere tutto: il velo, che certo non è prescritto dal Corano, vero? In un certo senso sì, in un altro no. Bruno Nassim Aboudrar, professore di Estetica a Parigi, presenta una sorta di “storia del velo” ricca di sorprese, per noi che tanto ignoriamo. In principio, infatti scopriamo che il velo fu imposto alle donne da San Paolo, nella prima lettera ai Corinzi: in chiesa le donne devono portare i capelli o rasati (ma è vergogna) o velati. Nel mondo dell’Antico Testamento, infatti, solo gli uomini si coprivano la testa, durante la preghiera. A Roma era velata la sposa durante il rito (civile, mai religioso) del matrimonio, per richiamare la verginità delle Vestali, secondo Aboudrar unico esempio nel mondo antico di associazione tra velo e castità. Nel mondo cristiano, invece, seguendo Paolo, il velo indica fin dai Padri la prudenza della donna che non provoca gli uomini e insieme li tiene lontani, si difende. Il valore aggiunto sarà quello della sottomissione, che piacerà anche a Calvino: nel commentare Paolo, il riformatore dirà che sebbene siamo tutti fratelli, per l’ordine civile è necessario che l’uomo domini la donna, e quindi questa deve coprirsi il capo. Viceversa, il Corano accenna solo in due sure a questo tema: nella 24 si raccomanda alle donne di coprirsi il seno e di non mostrare le caviglie se non davanti al marito, ai famigliari e ai servi eunuchi. Nella 33 si parla delle mogli del Profeta, diverse dalle altre donne: a loro è opportuno parlare restando dietro a un velo (una tenda?), solo loro non si possono risposare, loro portano il velo per scoraggiare le avances e per farsi riconoscere come donne libere e di rango. Il Corano solo qui invita il Profeta a dire alle donne della sua famiglia «e alle donne dei credenti» di velarsi «per distinguersi dalle altre e per evitare che subiscano offese», motivi, come sopra, di convivenza civile, senza cenni alla religione. La storia, però, ha deciso diversamente. Nei paesi musulmani il velo da segno di distinzione è diventato strumento di sottomissione della donna all’uomo, obbligatorio per legge. Paradossalmente, poi, il Novecento ha assistito a due capovolgimenti: dapprima, i tentativi di occidentalizzazione delle colonie, che hanno portato ad abbandonare il velo in Turchia, Iran, Egitto. Poi, invece, la ribellione all’Occidente, il potere dei capi religiosi e la trasformazione del velo (come della barba per l’uomo) in una bandiera dell’ortodossia, della sottomissione, della distinzione dalle donne occidentali. Forse quest’ultimo è il motivo che porta le musulmane di oggi a “scegliere” il velo da ragazzine, come segno di appartenenza alla comunità, con tanta maggior forza se si vive in Europa o negli Stati Uniti. Un certo Islam, infatti, desidera distinguersi da tutte le altre religioni e civiltà, contemporanee o antiche, a qualunque costo. Trovando la scusa per operare le distruzioni dei tesori antichi di Ninive, Mosul, Palmira, la tortura e l’uccisione dell’amorevole custode di questa, l’anziano archeologo Khaled al-Asaad. Alla sua memoria sono dedicati due libri utili a capire il momento. Viviano Domenici, con vivace taglio giornalistico, fa il punto sulle distruzioni compiute dall’Islam «contro l’idolatria», dai Buddha di Bamiyan del 2011 fino al disastroso 2015. Si legge bene, anche se gli ultimi capitoli, uno sguardo generale sull’iconoclastia, affrontano temi che chiederebbero qualche riflessione in più. L’archeologo “militante” Paolo Matthiae compie un’operazione ancora diversa, affidando alle pagine un disperato e coltissimo sfogo personale: dopo la Seconda Guerra Mondiale, chi avrebbe pensato di trovare ancora uomini che attentano deliberatamente al patrimonio della stessa umanità? Il noto archeologo percorre una storia dei saccheggi perpetrati spesso per damnatio memoriae, fino a quando l’umanità sembrava avere compreso il valore delle reliquie del passato. Nacque l’archeologia, l’idea del recupero, perfino l’accettazione di forme diverse di bellezza, di arte e civiltà, con i conseguenti sforzi di comprensione. Sembrava si fosse tutti d’accordo sul valore di un passato comune. Ma alcuni hanno voluto essere «più uguali degli altri», per dirlo con Orwell. E si sono permessi di rovinare e rivendere il patrimonio di famiglia, come figli scapestrati. Infine, ecco un libro che ci libera da altri pregiudizi. A scuola abbiamo sentito parlare della teoria della doppia verità, attribuita al medico e filosofo islamico Averroè, ossia Ibn Rushd (Cordova 1126 - Marrakech 1198). Si tratterebbe della dichiarazione di due modi diversi di arrivare a due verità “diverse”: la fede e il Corano porterebbero alla verità religiosa, la razionalità e la scienza a quella intellettuale, Averroè sarebbe stato perseguitato per aver parlato di una verità diversa dal contenuto del Corano. Ma Averroè non ha mai espresso questa opinione. Come chiarisce Massimo Campanini nella nuova introduzione al Trattato decisivo, ripubblicato dopo una ventina d’anni, «la romantica interpretazione di un Averroè martire del libero pensiero» deve essere abbandonata o almeno sfumata. L’intellettuale inserito a corte, poi caduto in disgrazia e poi a breve riabilitato, non è un razionalista, né una sorta di illuminista ante litteram. La verità è una sola, quella scritta nel Corano, a cui tutti devono credere. La filosofia, invece, è un’attività svolta dal fedele, che non per questo smette di essere tale. Tra religione e filosofia non c’è “armonia”, che fa pensare a un possibile scambio di una con l’altra, ma “connessione”, sono realtà parallele e non contraddittorie. Il tentativo è quello di permettere al fedele di essere filosofo, perché la sua ricerca non potrà che trovare la verità cui crede per fede. La storia dell’Islam non ha poi incoraggiato l’attività filosofica, né ha ripetuto lo splendore di attività scientifiche che fervevano nelle corti dei califfi. Finora. Perché è bello pensare che ciò che è avvenuto potrebbe ripetersi.
Il mondo islamico
Per capire il velo e l’iconoclastia
di Maria Bettetini
Forse anche la bellezza, ma sicuramente sarà la sapienza a salvare il mondo. Sarà la lotta all’ignoranza, guerra che senza droni e con poca spesa darebbe vita a un’umanità non peggiore, più sana di quella che oggi si massacra. Una guerra che comincia a casa. Sappiamo poco di Islam, e ne parliamo come se sapessimo, emaniamo giudizi secondi solo, per quantità, a quelli sulla formazione della Nazionale per gli Europei. D’altra parte, non ha senso iniziare la lettura del Corano, che parla un linguaggio sacro lontano dalla sensibilità del contemporaneo. Può essere utile, al contrario, cercarvi citazioni, una volta raggiunta la chiave di lettura di un concetto, ricordando che andrebbe comunque letto in lingua originale. Nella messe di pubblicazioni, soprattutto instant-book, di questi ultimi mesi tristemente costellati da assassinii e brutture in nome di un Dio poco noto all’Occidente, scegliamo alcuni volumi che permettono profondità. Il primo tocca un argomento sul quale pensiamo, di nuovo, di sapere tutto: il velo, che certo non è prescritto dal Corano, vero? In un certo senso sì, in un altro no. Bruno Nassim Aboudrar, professore di Estetica a Parigi, presenta una sorta di “storia del velo” ricca di sorprese, per noi che tanto ignoriamo. In principio, infatti scopriamo che il velo fu imposto alle donne da San Paolo, nella prima lettera ai Corinzi: in chiesa le donne devono portare i capelli o rasati (ma è vergogna) o velati. Nel mondo dell’Antico Testamento, infatti, solo gli uomini si coprivano la testa, durante la preghiera. A Roma era velata la sposa durante il rito (civile, mai religioso) del matrimonio, per richiamare la verginità delle Vestali, secondo Aboudrar unico esempio nel mondo antico di associazione tra velo e castità. Nel mondo cristiano, invece, seguendo Paolo, il velo indica fin dai Padri la prudenza della donna che non provoca gli uomini e insieme li tiene lontani, si difende. Il valore aggiunto sarà quello della sottomissione, che piacerà anche a Calvino: nel commentare Paolo, il riformatore dirà che sebbene siamo tutti fratelli, per l’ordine civile è necessario che l’uomo domini la donna, e quindi questa deve coprirsi il capo. Viceversa, il Corano accenna solo in due sure a questo tema: nella 24 si raccomanda alle donne di coprirsi il seno e di non mostrare le caviglie se non davanti al marito, ai famigliari e ai servi eunuchi. Nella 33 si parla delle mogli del Profeta, diverse dalle altre donne: a loro è opportuno parlare restando dietro a un velo (una tenda?), solo loro non si possono risposare, loro portano il velo per scoraggiare le avances e per farsi riconoscere come donne libere e di rango. Il Corano solo qui invita il Profeta a dire alle donne della sua famiglia «e alle donne dei credenti» di velarsi «per distinguersi dalle altre e per evitare che subiscano offese», motivi, come sopra, di convivenza civile, senza cenni alla religione. La storia, però, ha deciso diversamente. Nei paesi musulmani il velo da segno di distinzione è diventato strumento di sottomissione della donna all’uomo, obbligatorio per legge. Paradossalmente, poi, il Novecento ha assistito a due capovolgimenti: dapprima, i tentativi di occidentalizzazione delle colonie, che hanno portato ad abbandonare il velo in Turchia, Iran, Egitto. Poi, invece, la ribellione all’Occidente, il potere dei capi religiosi e la trasformazione del velo (come della barba per l’uomo) in una bandiera dell’ortodossia, della sottomissione, della distinzione dalle donne occidentali. Forse quest’ultimo è il motivo che porta le musulmane di oggi a “scegliere” il velo da ragazzine, come segno di appartenenza alla comunità, con tanta maggior forza se si vive in Europa o negli Stati Uniti. Un certo Islam, infatti, desidera distinguersi da tutte le altre religioni e civiltà, contemporanee o antiche, a qualunque costo. Trovando la scusa per operare le distruzioni dei tesori antichi di Ninive, Mosul, Palmira, la tortura e l’uccisione dell’amorevole custode di questa, l’anziano archeologo Khaled al-Asaad. Alla sua memoria sono dedicati due libri utili a capire il momento. Viviano Domenici, con vivace taglio giornalistico, fa il punto sulle distruzioni compiute dall’Islam «contro l’idolatria», dai Buddha di Bamiyan del 2011 fino al disastroso 2015. Si legge bene, anche se gli ultimi capitoli, uno sguardo generale sull’iconoclastia, affrontano temi che chiederebbero qualche riflessione in più. L’archeologo “militante” Paolo Matthiae compie un’operazione ancora diversa, affidando alle pagine un disperato e coltissimo sfogo personale: dopo la Seconda Guerra Mondiale, chi avrebbe pensato di trovare ancora uomini che attentano deliberatamente al patrimonio della stessa umanità? Il noto archeologo percorre una storia dei saccheggi perpetrati spesso per damnatio memoriae, fino a quando l’umanità sembrava avere compreso il valore delle reliquie del passato. Nacque l’archeologia, l’idea del recupero, perfino l’accettazione di forme diverse di bellezza, di arte e civiltà, con i conseguenti sforzi di comprensione. Sembrava si fosse tutti d’accordo sul valore di un passato comune. Ma alcuni hanno voluto essere «più uguali degli altri», per dirlo con Orwell. E si sono permessi di rovinare e rivendere il patrimonio di famiglia, come figli scapestrati. Infine, ecco un libro che ci libera da altri pregiudizi. A scuola abbiamo sentito parlare della teoria della doppia verità, attribuita al medico e filosofo islamico Averroè, ossia Ibn Rushd (Cordova 1126 - Marrakech 1198). Si tratterebbe della dichiarazione di due modi diversi di arrivare a due verità “diverse”: la fede e il Corano porterebbero alla verità religiosa, la razionalità e la scienza a quella intellettuale, Averroè sarebbe stato perseguitato per aver parlato di una verità diversa dal contenuto del Corano. Ma Averroè non ha mai espresso questa opinione. Come chiarisce Massimo Campanini nella nuova introduzione al Trattato decisivo, ripubblicato dopo una ventina d’anni, «la romantica interpretazione di un Averroè martire del libero pensiero» deve essere abbandonata o almeno sfumata. L’intellettuale inserito a corte, poi caduto in disgrazia e poi a breve riabilitato, non è un razionalista, né una sorta di illuminista ante litteram. La verità è una sola, quella scritta nel Corano, a cui tutti devono credere. La filosofia, invece, è un’attività svolta dal fedele, che non per questo smette di essere tale. Tra religione e filosofia non c’è “armonia”, che fa pensare a un possibile scambio di una con l’altra, ma “connessione”, sono realtà parallele e non contraddittorie. Il tentativo è quello di permettere al fedele di essere filosofo, perché la sua ricerca non potrà che trovare la verità cui crede per fede. La storia dell’Islam non ha poi incoraggiato l’attività filosofica, né ha ripetuto lo splendore di attività scientifiche che fervevano nelle corti dei califfi. Finora. Perché è bello pensare che ciò che è avvenuto potrebbe ripetersi.
Il Sole Domenica 31.1.16
Sincronizzazioni
Quanto è lungo un secondo
di Patrizia Caraveo
La rotazione della Terra, che ci fa vedere il Sole che sorge e tramonta, è stato il primo orologio degli esseri umani. Adesso abbiamo modi molto più sofisticati di misurare lo scorrere del tempo che ci mostrano, tra l’altro, che il periodo di rotazione della terra, che è un pianeta vivo, con un interno fluido, non è proprio precisissimo. Un grande terremoto oppure uno tsunami fanno fare dei piccoli sussulti alla Terra. Così, se vogliamo mantenere la sincronizzazione tra il Coordinated Universal Time, misurato dagli orologi atomici, e la rotazione della terra, una volta ogni due, tre anni è necessario aggiungere un secondo extra. Quanto è lungo un secondo? Poco per i nostri standard di percezione del tempo ma abbastanza per avere bisogno di una decisione internazionale perché la misura del tempo deve essere unica per tutte le nazioni della Terra.
Si chiama leap second, letteralmente il secondo salterino, e la decisione di quando sia il caso di aggiungerlo è in mano di un’apposita commissione internazionale che si è riunita recentemente e ha deliberato di non decidere, perché i paesi membri non sono riusciti a trovare un accordo. Già perché quando si decide di inserire il secondo intercalare tutti i sistemi di misura del tempo (che sono tantissimi perché tutte le nostre azioni, specialmente quelle digitali, hanno un’etichetta temporale) devono essere corretti a mano. Una procedura che ha dei costi. Nasce quindi la domanda se valga la pena di preoccuparsi del secondo ballerino. Dimentichiamoci della sincronizzazione tra il Coordinated Universal Time e la rotazione della terra e interveniamo tra 100 anni quando la differenza sarà arrivata ad un minuto, dicono Stati Uniti, China e parte dell’Europa. A loro si contrappone di posizione di Russia e Inghilterra che invece vogliono mantenere la sincronizzazione, una perché la usa per i satelliti Glonass, l’altra per rispetto della tradizione. In mezzo ci sono gli astronomi che guardano il cielo con telescopi ancorati a terra. Per loro perdere la sincronizzazione tra rotazione della terra e il tempo celeste è un problema perché l’astronomia misura la posizione degli oggetti in base al momento nel quale culminano sulla volta celeste. Per mantenere la sincronizzazione tra terra e cielo gli astronomi dovranno adattare il loro software alla mancanza del secondo ballerino. È bene che lo facciano al più presto, dal momento che dovranno trascorre otto anni prima che il problema venga ridiscusso, magari per allora il secondi da aggiungere saranno due o tre.
Sincronizzazioni
Quanto è lungo un secondo
di Patrizia Caraveo
La rotazione della Terra, che ci fa vedere il Sole che sorge e tramonta, è stato il primo orologio degli esseri umani. Adesso abbiamo modi molto più sofisticati di misurare lo scorrere del tempo che ci mostrano, tra l’altro, che il periodo di rotazione della terra, che è un pianeta vivo, con un interno fluido, non è proprio precisissimo. Un grande terremoto oppure uno tsunami fanno fare dei piccoli sussulti alla Terra. Così, se vogliamo mantenere la sincronizzazione tra il Coordinated Universal Time, misurato dagli orologi atomici, e la rotazione della terra, una volta ogni due, tre anni è necessario aggiungere un secondo extra. Quanto è lungo un secondo? Poco per i nostri standard di percezione del tempo ma abbastanza per avere bisogno di una decisione internazionale perché la misura del tempo deve essere unica per tutte le nazioni della Terra.
Si chiama leap second, letteralmente il secondo salterino, e la decisione di quando sia il caso di aggiungerlo è in mano di un’apposita commissione internazionale che si è riunita recentemente e ha deliberato di non decidere, perché i paesi membri non sono riusciti a trovare un accordo. Già perché quando si decide di inserire il secondo intercalare tutti i sistemi di misura del tempo (che sono tantissimi perché tutte le nostre azioni, specialmente quelle digitali, hanno un’etichetta temporale) devono essere corretti a mano. Una procedura che ha dei costi. Nasce quindi la domanda se valga la pena di preoccuparsi del secondo ballerino. Dimentichiamoci della sincronizzazione tra il Coordinated Universal Time e la rotazione della terra e interveniamo tra 100 anni quando la differenza sarà arrivata ad un minuto, dicono Stati Uniti, China e parte dell’Europa. A loro si contrappone di posizione di Russia e Inghilterra che invece vogliono mantenere la sincronizzazione, una perché la usa per i satelliti Glonass, l’altra per rispetto della tradizione. In mezzo ci sono gli astronomi che guardano il cielo con telescopi ancorati a terra. Per loro perdere la sincronizzazione tra rotazione della terra e il tempo celeste è un problema perché l’astronomia misura la posizione degli oggetti in base al momento nel quale culminano sulla volta celeste. Per mantenere la sincronizzazione tra terra e cielo gli astronomi dovranno adattare il loro software alla mancanza del secondo ballerino. È bene che lo facciano al più presto, dal momento che dovranno trascorre otto anni prima che il problema venga ridiscusso, magari per allora il secondi da aggiungere saranno due o tre.
Il Sole Domenica 31.1.16
45mila anni fa al polo nord
L’«homo sapiens» venuto dal freddo
di Gilberto Corbellini
Se la scoperta dei paleontologi, pubblicata nei giorni scorsi sulla rivista Science, ovvero che individui della specie Homo sapiens andavano a caccia ben oltre il Circolo Polare artico già 45mila anni fa, forse sarà il caso di tornare a prendere sul serio alcune teorie che collocavano l’origine delle mitiche popolazioni cosiddette ariane al Polo Nord. In particolare, il suggestivo saggio del matematico, astronomo e fondatore del movimento indipendentista indiano Bal Gangadhar Tilak, La dimora artica nei Veda (1903). Tilak, chiamato dai connazionali Lokamanya («colui che è onorato dal suo popolo come guida») avanzava l’ipotesi, basata sulla lettura di alcuni inni vedici, della cronologia e dei calendari vedici, nonché di passaggi dell’Avesta, che gli ariani abitassero il Polo Nord prima dell’inizio dell’ultimo periodo post-glaciale. Una teoria sostenuta anche nel libro del primo presidente della Boston University, William F. Warren, Paradise Found or the Crandle of the Human Race at the North Pole (1885). Libro che Tilak saccheggiò.
Al di là delle inverosimili speculazioni tendenzialmente razziste tardo ottocentesche fondate su tracce immaginabili a partire dalla letteratura mitologico-religiosa, la recente scoperta è di rilevantissima importanza, perché sposta di ben 15mila anni indietro la presenza dell’uomo moderno nella regione artica, e questo significa che 45mila anni fa i nostri antenati dovevano avere un’organizzazione sociale complessa e molto efficiente per abitare in territori ostili e cacciare mammut o i rinoceronti lanosi che brucavano le steppe-tundre erbose. Sono stati proprio i resti di un mammut a fornire elementi per giungere a un conclusione abbastanza sorprendente. Infatti, per lungo tempo si era pensato che i nostri antenati cacciatori adattati ai climi freddi e in grado di cacciare la megafauna avessero raggiunto l’artico intorno a 15-12 mila anni fa, attraversando lo stretto di Bering per entrare nelle Americhe circa 15mila anni fa. Nuovi ritrovamenti agli inizi di questo millennio aveva portato a ipotizzare che già 35mila anni fa degli uomini cacciassero sui Monti Urali del nord e nella Siberia nordorientale. Ossa umane erano però finora state trovate non più a nord di Mosca, circa (57° nord). Mentre il mammut di cui parliamo è stato rivenuto casualmente da un bambino a 72° nord, cioè ben oltre il Circolo Polare Artico.
L’animale presenta una serie di ferite che sono chiaramente risultato di un’azione di caccia che ha portato alla sua uccisione, a cui sono seguite interventi di macellazione e asportazione di carne, grasso e di parte delle zanne. Per arrivare a quelle latitudini e cacciare un mammut dell’età di circa 15 anni e in piena salute, quegli uomini dovevano essere particolarmente abili nella costruzione di strumenti, nel fabbricare abiti caldi e temporanei rifugi per sopravvivere a climi decisamente rigidi e in ambienti inospitali. Tutte queste capacità applicate alla vita in ambienti rigidi si pensava che avessero richiesto diverse migliaia di anni in più per essere acquisite. E sono proprio queste caratteristiche a far ritenere che si trattasse di uomini moderni e non di neandertal. Alcuni colleghi dei russi, negli Stati Uniti, stanno aspettando più informazioni. Prima di tutto sui metodi usati per la datazione. Ma anche una datazione effettuata su quei resti da qualche laboratorio diverso da quello dell’Accademia Russa delle Science di San Pietroburgo: una contaminazione è sempre possibile.
Naturalmente non tutti sono disposti a dare un significato così pregnante alla scoperta. Infatti, qualcuno sostiene, sulla base delle foto pubblicate, che l’animale non è stato completamente sfruttato per le risorse che offriva, soprattutto il grasso. E questa sarebbe un’anomalia, in quando dei cacciatori moderni, in quelle condizioni, avrebbero usato completamente l’animale, data l’importanza di accumulare e scambiare cibo per la sopravvivenza e il rafforzamento dei legami sociali.
45mila anni fa al polo nord
L’«homo sapiens» venuto dal freddo
di Gilberto Corbellini
Se la scoperta dei paleontologi, pubblicata nei giorni scorsi sulla rivista Science, ovvero che individui della specie Homo sapiens andavano a caccia ben oltre il Circolo Polare artico già 45mila anni fa, forse sarà il caso di tornare a prendere sul serio alcune teorie che collocavano l’origine delle mitiche popolazioni cosiddette ariane al Polo Nord. In particolare, il suggestivo saggio del matematico, astronomo e fondatore del movimento indipendentista indiano Bal Gangadhar Tilak, La dimora artica nei Veda (1903). Tilak, chiamato dai connazionali Lokamanya («colui che è onorato dal suo popolo come guida») avanzava l’ipotesi, basata sulla lettura di alcuni inni vedici, della cronologia e dei calendari vedici, nonché di passaggi dell’Avesta, che gli ariani abitassero il Polo Nord prima dell’inizio dell’ultimo periodo post-glaciale. Una teoria sostenuta anche nel libro del primo presidente della Boston University, William F. Warren, Paradise Found or the Crandle of the Human Race at the North Pole (1885). Libro che Tilak saccheggiò.
Al di là delle inverosimili speculazioni tendenzialmente razziste tardo ottocentesche fondate su tracce immaginabili a partire dalla letteratura mitologico-religiosa, la recente scoperta è di rilevantissima importanza, perché sposta di ben 15mila anni indietro la presenza dell’uomo moderno nella regione artica, e questo significa che 45mila anni fa i nostri antenati dovevano avere un’organizzazione sociale complessa e molto efficiente per abitare in territori ostili e cacciare mammut o i rinoceronti lanosi che brucavano le steppe-tundre erbose. Sono stati proprio i resti di un mammut a fornire elementi per giungere a un conclusione abbastanza sorprendente. Infatti, per lungo tempo si era pensato che i nostri antenati cacciatori adattati ai climi freddi e in grado di cacciare la megafauna avessero raggiunto l’artico intorno a 15-12 mila anni fa, attraversando lo stretto di Bering per entrare nelle Americhe circa 15mila anni fa. Nuovi ritrovamenti agli inizi di questo millennio aveva portato a ipotizzare che già 35mila anni fa degli uomini cacciassero sui Monti Urali del nord e nella Siberia nordorientale. Ossa umane erano però finora state trovate non più a nord di Mosca, circa (57° nord). Mentre il mammut di cui parliamo è stato rivenuto casualmente da un bambino a 72° nord, cioè ben oltre il Circolo Polare Artico.
L’animale presenta una serie di ferite che sono chiaramente risultato di un’azione di caccia che ha portato alla sua uccisione, a cui sono seguite interventi di macellazione e asportazione di carne, grasso e di parte delle zanne. Per arrivare a quelle latitudini e cacciare un mammut dell’età di circa 15 anni e in piena salute, quegli uomini dovevano essere particolarmente abili nella costruzione di strumenti, nel fabbricare abiti caldi e temporanei rifugi per sopravvivere a climi decisamente rigidi e in ambienti inospitali. Tutte queste capacità applicate alla vita in ambienti rigidi si pensava che avessero richiesto diverse migliaia di anni in più per essere acquisite. E sono proprio queste caratteristiche a far ritenere che si trattasse di uomini moderni e non di neandertal. Alcuni colleghi dei russi, negli Stati Uniti, stanno aspettando più informazioni. Prima di tutto sui metodi usati per la datazione. Ma anche una datazione effettuata su quei resti da qualche laboratorio diverso da quello dell’Accademia Russa delle Science di San Pietroburgo: una contaminazione è sempre possibile.
Naturalmente non tutti sono disposti a dare un significato così pregnante alla scoperta. Infatti, qualcuno sostiene, sulla base delle foto pubblicate, che l’animale non è stato completamente sfruttato per le risorse che offriva, soprattutto il grasso. E questa sarebbe un’anomalia, in quando dei cacciatori moderni, in quelle condizioni, avrebbero usato completamente l’animale, data l’importanza di accumulare e scambiare cibo per la sopravvivenza e il rafforzamento dei legami sociali.
Corriere La Lettura 31.1.16
I colpi dell’uomo sul pachiderma
Caccia grossa nell’Artico. Un mammut ucciso in anticipo di 10.000 anni
Nell’artico siberiano è stata ritrovata la carcassa, vecchia 45 mila anni, di un mammut ucciso da uomini che giunsero nella zona prima di quanto si credesse
di Telmo Pievani
Tre anni fa una spedizione di scienziati russi guidata da Alexei Tikhonov, grande specialista di mammut all’Accademia delle Scienze, si spinse fino alla stazione meteorologica polare di Sopochnaya Karga, a 71 gradi di latitudine nord. Su una scogliera ghiacciata della baia dello Yenisei, sul mare di Kara, porzione siberiana del mar Glaciale Artico, un paio di chilometri a nord della stazione, i ricercatori scoprirono la carcassa ben conservata di un mammut lanoso. Se l’aspettavano, poiché la presenza di questi grossi erbivori era già nota nella penisola di Tajmir, Siberia artica. La stratigrafia e l’analisi al radiocarbonio di una tibia permisero la datazione precisa dell’animale: era morto su quella spiaggia remota tra 44.500 e 45.000 anni fa.
Sappiamo che i mammut hanno vagato per decine di migliaia di anni nell’emisfero settentrionale, seguendo le oscillazioni climatiche. Quando in Europa la calotta ghiacciata di Barents scendeva fino in Germania e in Inghilterra, questi bestioni lanosi si spingevano fin nel cuore della nostra penisola. E sono sopravvissuti fino a tempi più recenti di quanto si pensasse. Un manipolo riuscì a rifugiarsi, dopo la fine dell’ultima era glaciale 11.700 anni fa, nella penisola e poi isola di Wrangel, un angolo sperduto dell’Artico siberiano orientale dove i cacciatori paleo-eschimesi sarebbero arrivati soltanto tremila anni fa. Su Wrangel i mammut, un po’ rimpiccioliti, resistettero fino a meno di quattromila anni fa, sfiorando così la storia delle civiltà umane.
Dunque il mammut di Sopochnaya Karga è piuttosto antico rispetto ad altri suoi simili, ma è così ben conservato che, oltre allo scheletro completo, il ghiaccio ha preservato alcune parti molli, incluso il grasso della tipica gobba. Era un giovane maschio di 15 anni, in ottima salute. Chi o che cosa ha ucciso dunque un animale così forte e resistente? La soluzione del giallo ha lasciato di stucco la comunità scientifica, tanto da meritarsi la pubblicazione sul numero di «Science» del 15 gennaio. Le ossa sono state esaminate ai raggi X, ma già a occhio nudo mostrano i segni di ferite inusuali, soprattutto sulla testa e nella zona toracica. L’osso zigomatico è forato da un’arma a punta conica, fatta di osso o di avorio. Altri colpi mirarono invece alla base del tronco, per recidere arterie vitali e uccidere l’animale per dissanguamento. Le lance taglienti furono scagliate con tale vigore da penetrare pelle e muscoli, conficcandosi nelle ossa.
Insomma, si tratta di una ben organizzata scena di caccia, cui seguì la paziente macellazione di ogni parte dell’animale, compresa la lingua accuratamente asportata. Del mammut non si buttava via niente, soprattutto le preziose zanne vennero rotte in modo tale da produrre scaglie appuntite di avorio, a loro volta usate come strumenti per la macellazione della carne. Segno che a quel tempo era all’opera un’intelligenza in grado di trasformare potenzialmente qualsiasi oggetto utile in uno strumento, e di produrre uno strumento a partire da un altro strumento. In assenza di pietre adatte, si ricorreva all’avorio.
Si dimostra così, sorprendentemente, che circa diecimila anni prima di quanto ritenuto finora, già 45.000 anni fa, a una latitudine più settentrionale persino di Capo Nord, quando ancora sopravvivevano altre specie umane come l’uomo di Neanderthal in Europa e l’uomo di Denisova in Asia centrale, gruppi di cacciatori sapiens di origine africana erano in grado di inseguire e abbattere un mammut sulle sponde del mar Glaciale Artico. La datazione precede di 20 mila anni l’ultimo massimo glaciale, cioè il periodo proibitivo, che va da 26 a 19 mila anni fa, in cui l’era glaciale raggiunse il picco.
Chi ha compiuto l’impresa nel grande freddo doveva avere capacità di organizzazione sociale e di coordinamento linguistico notevoli, insieme a tecnologie avanzate per cacciare e proteggersi dal gelo. È chiaro che qui l’evoluzione culturale ha prevalso su quella biologica, permettendo ai nostri antenati di adattarsi a qualsiasi ecosistema terrestre. Homo sapiens divenne una specie cosmopolita e invasiva, capace di creare sublimi opere d’arte (a poche migliaia di anni dopo risale l’arte rupestre recentemente scoperta sull’isola di Sulawesi, ai tropici) e al contempo di lasciare un segno distruttivo sugli ambienti, per esempio in Australia e nelle Americhe, dove all’arrivo dei primi cacciatori sapiens decine di specie di mammiferi di grossa taglia, inermi davanti a un predatore così ben organizzato, furono estinte per sempre.
La scoperta russa potrebbe anche gettare nuova luce proprio sull’arrivo dell’ Homo sapiens in Nord America. Se i cacciatori siberiani erano già in circolazione 45.000 anni fa, non è escluso che possano essersi spinti verso oriente, inseguendo le mandrie di caribù e di mammut, ben prima della fine dell’ultima glaciazione, attraversando la Beringia, cioè il vasto ponte di terra che nei periodi freddi univa l’Asia nord-orientale all’Alaska. L’impressione è che molte storie attendano ancora di essere raccontate sugli antichi spostamenti delle popolazioni umane.
I colpi dell’uomo sul pachiderma
Caccia grossa nell’Artico. Un mammut ucciso in anticipo di 10.000 anni
Nell’artico siberiano è stata ritrovata la carcassa, vecchia 45 mila anni, di un mammut ucciso da uomini che giunsero nella zona prima di quanto si credesse
di Telmo Pievani
Tre anni fa una spedizione di scienziati russi guidata da Alexei Tikhonov, grande specialista di mammut all’Accademia delle Scienze, si spinse fino alla stazione meteorologica polare di Sopochnaya Karga, a 71 gradi di latitudine nord. Su una scogliera ghiacciata della baia dello Yenisei, sul mare di Kara, porzione siberiana del mar Glaciale Artico, un paio di chilometri a nord della stazione, i ricercatori scoprirono la carcassa ben conservata di un mammut lanoso. Se l’aspettavano, poiché la presenza di questi grossi erbivori era già nota nella penisola di Tajmir, Siberia artica. La stratigrafia e l’analisi al radiocarbonio di una tibia permisero la datazione precisa dell’animale: era morto su quella spiaggia remota tra 44.500 e 45.000 anni fa.
Sappiamo che i mammut hanno vagato per decine di migliaia di anni nell’emisfero settentrionale, seguendo le oscillazioni climatiche. Quando in Europa la calotta ghiacciata di Barents scendeva fino in Germania e in Inghilterra, questi bestioni lanosi si spingevano fin nel cuore della nostra penisola. E sono sopravvissuti fino a tempi più recenti di quanto si pensasse. Un manipolo riuscì a rifugiarsi, dopo la fine dell’ultima era glaciale 11.700 anni fa, nella penisola e poi isola di Wrangel, un angolo sperduto dell’Artico siberiano orientale dove i cacciatori paleo-eschimesi sarebbero arrivati soltanto tremila anni fa. Su Wrangel i mammut, un po’ rimpiccioliti, resistettero fino a meno di quattromila anni fa, sfiorando così la storia delle civiltà umane.
Dunque il mammut di Sopochnaya Karga è piuttosto antico rispetto ad altri suoi simili, ma è così ben conservato che, oltre allo scheletro completo, il ghiaccio ha preservato alcune parti molli, incluso il grasso della tipica gobba. Era un giovane maschio di 15 anni, in ottima salute. Chi o che cosa ha ucciso dunque un animale così forte e resistente? La soluzione del giallo ha lasciato di stucco la comunità scientifica, tanto da meritarsi la pubblicazione sul numero di «Science» del 15 gennaio. Le ossa sono state esaminate ai raggi X, ma già a occhio nudo mostrano i segni di ferite inusuali, soprattutto sulla testa e nella zona toracica. L’osso zigomatico è forato da un’arma a punta conica, fatta di osso o di avorio. Altri colpi mirarono invece alla base del tronco, per recidere arterie vitali e uccidere l’animale per dissanguamento. Le lance taglienti furono scagliate con tale vigore da penetrare pelle e muscoli, conficcandosi nelle ossa.
Insomma, si tratta di una ben organizzata scena di caccia, cui seguì la paziente macellazione di ogni parte dell’animale, compresa la lingua accuratamente asportata. Del mammut non si buttava via niente, soprattutto le preziose zanne vennero rotte in modo tale da produrre scaglie appuntite di avorio, a loro volta usate come strumenti per la macellazione della carne. Segno che a quel tempo era all’opera un’intelligenza in grado di trasformare potenzialmente qualsiasi oggetto utile in uno strumento, e di produrre uno strumento a partire da un altro strumento. In assenza di pietre adatte, si ricorreva all’avorio.
Si dimostra così, sorprendentemente, che circa diecimila anni prima di quanto ritenuto finora, già 45.000 anni fa, a una latitudine più settentrionale persino di Capo Nord, quando ancora sopravvivevano altre specie umane come l’uomo di Neanderthal in Europa e l’uomo di Denisova in Asia centrale, gruppi di cacciatori sapiens di origine africana erano in grado di inseguire e abbattere un mammut sulle sponde del mar Glaciale Artico. La datazione precede di 20 mila anni l’ultimo massimo glaciale, cioè il periodo proibitivo, che va da 26 a 19 mila anni fa, in cui l’era glaciale raggiunse il picco.
Chi ha compiuto l’impresa nel grande freddo doveva avere capacità di organizzazione sociale e di coordinamento linguistico notevoli, insieme a tecnologie avanzate per cacciare e proteggersi dal gelo. È chiaro che qui l’evoluzione culturale ha prevalso su quella biologica, permettendo ai nostri antenati di adattarsi a qualsiasi ecosistema terrestre. Homo sapiens divenne una specie cosmopolita e invasiva, capace di creare sublimi opere d’arte (a poche migliaia di anni dopo risale l’arte rupestre recentemente scoperta sull’isola di Sulawesi, ai tropici) e al contempo di lasciare un segno distruttivo sugli ambienti, per esempio in Australia e nelle Americhe, dove all’arrivo dei primi cacciatori sapiens decine di specie di mammiferi di grossa taglia, inermi davanti a un predatore così ben organizzato, furono estinte per sempre.
La scoperta russa potrebbe anche gettare nuova luce proprio sull’arrivo dell’ Homo sapiens in Nord America. Se i cacciatori siberiani erano già in circolazione 45.000 anni fa, non è escluso che possano essersi spinti verso oriente, inseguendo le mandrie di caribù e di mammut, ben prima della fine dell’ultima glaciazione, attraversando la Beringia, cioè il vasto ponte di terra che nei periodi freddi univa l’Asia nord-orientale all’Alaska. L’impressione è che molte storie attendano ancora di essere raccontate sugli antichi spostamenti delle popolazioni umane.
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