estratto da
Introduzione a “I percorsi della ragione”
di Fulvio Iannaco
Comune di Firenze - Consiglio di Quartiere 2
Firenze 14 aprile-26 maggio 1988 - Villa di Rusciano
A cura di Massimo Saltafuso
Edizioni A.G.M. maggio 1990
(...)
I percorsi della ragione, nella storia della nostra cultura hanno un punto di partenza lontano. Cicerone per primo usa il termine ratio, per tradurre in latino lògos, parola che in greco aveva fondamentalmente il senso di «calcolo», di «discorso», cioè intendeva significare «la manifestazione del pensiero deduttivo attraverso i suoni articolati di una lingua», la verbalizzazione di un pensiero logico, discorsivo. Razionale, diremmo oggi.
Ma per comprendere davvero occorre risalire ancora più indietro, logicamente e cronologicamente.
Se ratio/logos è manifestazione verbale di un pensiero, come si caratterizza il pensiero di cui esso è manifestazione?
Alla base e prima di un «discorso», infatti, di una verbalizzazione, c’è il pensiero che poi quel «discorso» verbalizza, manifesta, ma alla base e prima di un pensiero c’è un rapporto con il fuori di sé, con l’altro da sé e, con esso rapporto, c’è un atto di percezione, di rappresentazione dell’altro da sé a sé che pone le basi di un pensiero, di una comprensione, di un processo di conoscenza.
Prima del concetto di logos/ratio c’è allora il concetto di dianoia, ma esso non è l’unico, alle radici della nostra cultura, ad indicare un’attività conoscitiva. Esisteva anche il concetto di noùs. Ed esisteva una differenziazione, anzi una contrapposizione tra questi due concetti.
II concetto di noùs, espresso dal verbo noèin, lo troviamo già in Omero, nell'Iliade.
Esso designa la «facoltà di comprendere, di rendersi conto di una situazione, di un evento, o delle reali intenzioni (al di là della manifestazione evidente, apparente) di qualcuno». Riguarda «atti di riconoscimento immediato direttamente associati alla vista, allo sguardo: ma è una vista, uno sguardo diverso dalla percezione visiva, del senso fisico, non si affida ad organi di senso». La diànoia, invece è la «facoltà di sviluppare con processi razionali determinate premesse fino alle necessarie conclusioni». La conoscenza della diànoia, la conoscenza razionale - la ragione quindi - è la «conoscenza discorsiva» (del «discorso / lògos»), quella che «procede da premesse a conclusioni e poi da queste conclusioni a conclusioni ulteriori, secondo il modello della sistemazione euclidea della geometria e del sillogismo apodittico aristotelico».
La dianoia quindi non è noùs, che è percezione vera, immediata, non frutto di un procedimento razionale, della realtà; e infatti Platone ancora distingueva la dianoia dalla noesis (l’«intelligenza creativa», l’attività del noùs) capace di accedere alle idee, cioè alle immagini vere, alla verità che coglie il senso della realtà; e ancora per Aristotele dianoia era la conoscenza scientifica deduttiva, distinta dal pensiero noetico intuitivo dei principi primi.
Ma dianoia non è neanche la percezione sensibile, dei sensi fìsici, dell’apparenza/evidenza, che Democrito, il materialista, definiva «oscura», che Parmenide diceva saper cogliere solo «ciò che non è», che Platone diceva produttiva di doxa, cioè di opinione, non di sapere.
La ratio/lògos/ragione, insomma è manifestazione di una attività del pensiero discorsivo deduttivo, cioè, appunto dianoetico, è un «discorso», un «calcolo» che procede da premesse a conclusioni.
Ma alle origini della nostra storia c’è quindi, con il concetto di noùs, il pensiero della possibilità di una facoltà di comprendere e conoscere che si avvale di un vedere diverso dalla percezione sensibile, che non si affida ai soli organi di senso.
Affidarsi ad organi di senso può essere fatale. Edipo non ha colpa, ci racconta Sofocle, ma alla fine della terribile storia si acceca degli occhi fìsici, perché la colpa del non sapere è degli occhi fisici che ingannano. Del resto Tiresia, il veggente che ha vissuto sette anni come donna, è cieco.
La percezione certa del noùs è un antichissimo desiderio dell’uomo.
Ma, invece, l’uomo troppo spesso si inganna. Crede di aver visto giusto, ma non è così, viene deluso. E si ritrova solo, bambino dai grandi piedi abbandonato al gelo di una montagna ostile. E poi, deluso, vuole diventare re, dominare chi prima desiderava e da cui è stato abbandonato, stuprare, appropriarsi di chi non ha potuto succhiare.
Così quella che avrebbe dovuto essere una possibilità per tutti gli uomini, diventa una menzogna, un «potere» di pochi. In una società di diseguali, pochi, i dominatori, si presentano ai più, i dominati ed affermano di essere detentori di questo potere, il potere di conoscere la verità. Perché sarebbe stato loro affidato da Dio. E lo amministrano ai più in cambio dell’obbedienza, della rinuncia a sé. Stregoni, sciamani, veggenti, oracoli, maghi, preti. In alleanza con il re.
Sarebbe stata necessaria la scoperta di ciò che impedisce all’uomo di percepire la verità della realtà. Senza di essa all’uomo resta la diànoia, la ragione. Essa procede da premesse a conclusioni. Ma quali sono le premesse da cui essa procede? Come accertare che esse siano esatte, che colgano la verità della realtà?
La geometria euclidea, il sillogismo apodittico, i percorsi della ragione sono macchine logiche che hanno bisogno, per mettersi in moto, di premesse, di assiomi, di postulati; ma le premesse, gli assiomi, i postulati sono per definizione indimostrabili dalla ragione. Essa non è in grado di accertare, non è in grado di verificare con i propri strumenti la verità delle proprie premesse.
La ragione dipende dalle premesse. Ma il più perfetto meccanismo logico è falso se prende le mosse da premesse false. Se le premesse «sembrano» autoevidenti, ma non sono vere, se la percezione che costituisce le premesse non è percezione esatta della realtà, ma pregiudizio, la perfezione del suo svilupparsi logico non vale più un bel niente.
Come i movimenti celesti descritti da Tolomeo.
E infatti tutto il progresso umano, tutte le invenzioni e le scoperte che hanno cambiato la storia dell’uomo si sono avviate dal rifiuto, dalla ribellione a ciò che fino a quel momento era considerata unanimemente una premessa valida, santificata dal prete e dal re.
Era «autoevidente», ciascuno lo constatava, che il sole girasse intorno alla terra. Che alcuni uomini fossero più potenti di altri.
Attraverso una lunga ricerca durata secoli, attraverso scontri durissimi, spesso solitari, spesso pagati col dolore e col sangue, attraverso una storia eroica, la scienza del mondo naturale ha fondato sul coraggio dell’uomo, sulle sue capacità di ribellione e di rifiuto alla legge del prete e del re il proprio cammino progressivo.
Faticosamente, dolorosamente ha trovato le strade della propria nascita e del proprio sviluppo attraverso la costruzione di procedimenti autocorrettivi, di un metodo fecondo di scoperta ed invenzione.
Ma il mistero è rimasto nel mondo psichico che è solo umano. Nella sua lotta contro la fame, il freddo, la debolezza delle proprie forze fisiche, la malattia, la resistenza della materia, lotta fatta per non morire, l’uomo non riusciva a scoprire, al di là del non umano fuori dell’uomo, il non umano nell’uomo, che anch’esso uccide, anche quando il non umano fuori dell’uomo non lo faccia.
Perché nel mondo psichico l’evidenza maschera quasi sempre la realtà dell’intenzione inconscia o conscia, il sorriso e la gentilezza possono nascondere l’inganno mortale di Jago, la grandezza del Padre, del Maestro, del Presidente può essere illusione ottica, la dichiarazione d’amore può essere odio e cannibalismo nascosto, la bellezza fisica può nascondere la smorfia disumana della Bestia, o la Bestia evidente, come nella favola, può dissimulare la bellezza umana.
Sarebbe occorsa una scoperta che ponesse in discussione nel mondo psichico umano il problema della ragione, della capacità della percezione di essere percezione vera, della conoscenza del noumeno al di là dell’apparenza del fenomeno. Saper squarciare il velo di Maja.
Perché la ragione non ha strumenti per verificare le proprie premesse.
Ci sarebbe voluto il noùs, il riconoscimento immediato, la percezione esatta della realtà. Ma presto il noèin, il riconoscere omerico, non viene più pensato come facoltà e possibilità di un uomo che non ne ha scoperto le strade, ma proiettato, alienato. L’alienazione religiosa.
Da Platone, con Sant’Agostino, con Ruggero Bacone ed i teologi di Oxford, la noesis, l’individuazione di premesse certe, la condizione prima di possibilità del pensare, non è rapporto dell’uomo con la realtà, con la situazione, con l’evento, con l’altro, ma illuminazione divina nel profondo dell’anima in interiore homine, attività divina, non umana. Diventa dono, attività non dell’uomo, ma del proiettato, di Dio, che proviene da lontananze trascendenti, da domini alieni. E quindi tale possibilità è successivamente annullata, dichiarata impossibile, inesistente dalla ragione illuministica e poi positivistica, che per volersi, giustamente, liberare dall’oppressione dell’astrologo, dello stregone, del prete e non sapendo scoprire la strada umana ad atti di riconoscimento certi, lascia praticamente intatto nelle loro mani il loro millenario potere. Perché chiunque vorrà rifiutare di essere indifferente nei confronti del mondo psichico umano, chiunque vorrà orientarsi nel mondo degli affetti, dei sogni, delle rappresentazioni, del dolore e della gioia, del mistero in sè e nell’altro, non potrà che nuovamente rivolgersi a loro che affermano di conoscere, per dono, per rivelazione, la verità. Cadrà nuovamente preda dei loro inganni.
Chi non saprà accontentarsi della conoscenza del fenomeno, ridiverrà servo di Dio. Come i giovani romantici tedeschi.
L’uomo perde la possibilità di cercare la conoscenza dell’al di là dell’evidente, perché l’al di là è dichiarato noto: l’inferno, il paradiso.
Alle origini della nostra cultura contemporanea Kant confermerà autorevolmente e definitivamente l’impossibilità per l’uomo della conoscenza dell’aldilà di ciò che appare. Così come la Chiesa con il rogo di Campo dei Fiori aveva creduto di poter incenerire ed annullare gli «eroici furori» di Giordano Bruno, di far sparire per sempre dalla storia il ribelle ricercatore eroico della verità, così Kant accende ai lumi della ragione dianoetica il rogo dell’annullamento della possibilità per l’uomo di cercare e riconoscere la verità. Il noumeno non è conoscibile, bisogna accontentarsi del fenomeno, di ciò che appare, di ciò che sembra. Il noùs, se proprio si vuole occuparsene, è roba da preti. La verità è terreno riservato alla religione.
Pregiudizi inconsci, percezioni deliranti, premesse non vere inficiano i percorsi della ragione. La diànoia, il lògos possono diventare così farneticazioni. Magari ben costruite, magari dotate di una rigorosissima logica interna, ma farneticazioni.
È perché Sant’Agostino ha detto che la conoscenza è illuminazione divina e non deriva dal rapporto dell’uomo con la realtà. È perché Kant ha detto che l’uomo può conoscere solo ciò che appare, il fenomeno, e che il noumeno, la cosa in sé, la verità, non può essere conosciuta dall’uomo.
Resta la follia, chi intuisce, concepisce una ribellione, ma non trova soluzioni. Schopenhauer, Nietzsche. E l’uomo perde se stesso nel perdere la possibilità del rapporto interumano vero che dà la conoscenza.
Resta l’alienazione religiosa: vero è il rivelato. E l’uomo è servo di un padrone onnipotente. Dio e Stalin.
Resta la capacità quasi sempre angosciata dell’artista di intuire, di alludere, di denunciare, di rappresentare, senza poterlo risolvere, il dramma di una conoscenza impossibile, castrata. Sofocle, Shakespeare, Pirandello, il Rashomon di Kurosawa.
L’uomo resta costretto, come tremila anni fa, ad affidarsi all’ammirazione del sogno dell’artista ed alla consolazione che ne può trarre per sé senza potersi proporre di divenire anche lui creativo.
Se tenterà di affrontare il mistero millenario con gli strumenti della ragione, con la perfetta macchina logica del pensiero dianoetico, non capirà quasi niente. Riuscirà solo a concettualizzare l’esistenza di un inconscio congenitamente perverso e quindi da tenere a bada (ma era già stato detto: homo homini lupus). Per giustificarsi della propria impotenza conoscitiviva e trasformativa, giustificherà la repressione di un mondo inconscio pericoloso ed intrasformabile che deve essere dominato con il superio e con la ragione cosciente che è in ottimi rapporti col prete e col re. Essa si serve del terrore paralizzante che può incutere il primo con il senso di colpa e con la minaccia di punizione e della violenza del secondo.
Marx aveva scritto «la filosofia e lo studio del mondo reale sono tra loro in rapporto come l’onanismo e l’amore sessuale».
Occorreva una scoperta scientifica, la scoperta della dinamica inconscia che rende ciechi gli uomini, la «fantasia di sparizione» e della creazione della prima immagine, l’«inconscio mare calmo»6.
«I filosofi pensano di poter pensare del pensiero umano per dono divino come dato costituito. Io obietto, e l’inconscio, la perversione più o meno inconscia? Come si può parlare dell’uomo, del pensiero umano illudendosi di mettere in camera blindata le proprie pulsioni, le proprie rappresentazioni più o meno alterate? Io alla sovranità di una ragione immune dall’inconscio non posso credere. Una ragione sovrana fuori dalle passioni umane è di nuovo Dio...»
Ma Albert Einstein diceva: «È più facile demolire un atomo che un pregiudizio».
Fulvio Antonio Iannaco
NOTE
1 Enciclopedia di filosofia, Garzanti, Milano 1981.
2. Ibidem.
3. Ibidem.
4. Ibidem.
5. È nell’Ideologia tedesca.
6. Il riferimento è alle opere di Massimo Fagioli, pubblicate dalle Nuove Edizioni Romane.
7. M. Fagioli, in Bambino donna e trasformazione dell’uomo, pagg. 65/66. Roma, 1980