lunedì 1 febbraio 2016

Corriere La Lettura 31.1.16

I colpi dell’uomo sul pachiderma

Caccia grossa nell’Artico. Un mammut ucciso in anticipo di 10.000 anni

Nell’artico siberiano è stata ritrovata la carcassa, vecchia 45 mila anni, di un mammut ucciso da uomini che giunsero nella zona prima di quanto si credesse

di Telmo Pievani

Tre anni fa una spedizione di scienziati russi guidata da Alexei Tikhonov, grande specialista di mammut all’Accademia delle Scienze, si spinse fino alla stazione meteorologica polare di Sopochnaya Karga, a 71 gradi di latitudine nord. Su una scogliera ghiacciata della baia dello Yenisei, sul mare di Kara, porzione siberiana del mar Glaciale Artico, un paio di chilometri a nord della stazione, i ricercatori scoprirono la carcassa ben conservata di un mammut lanoso. Se l’aspettavano, poiché la presenza di questi grossi erbivori era già nota nella penisola di Tajmir, Siberia artica. La stratigrafia e l’analisi al radiocarbonio di una tibia permisero la datazione precisa dell’animale: era morto su quella spiaggia remota tra 44.500 e 45.000 anni fa.
Sappiamo che i mammut hanno vagato per decine di migliaia di anni nell’emisfero settentrionale, seguendo le oscillazioni climatiche. Quando in Europa la calotta ghiacciata di Barents scendeva fino in Germania e in Inghilterra, questi bestioni lanosi si spingevano fin nel cuore della nostra penisola. E sono sopravvissuti fino a tempi più recenti di quanto si pensasse. Un manipolo riuscì a rifugiarsi, dopo la fine dell’ultima era glaciale 11.700 anni fa, nella penisola e poi isola di Wrangel, un angolo sperduto dell’Artico siberiano orientale dove i cacciatori paleo-eschimesi sarebbero arrivati soltanto tremila anni fa. Su Wrangel i mammut, un po’ rimpiccioliti, resistettero fino a meno di quattromila anni fa, sfiorando così la storia delle civiltà umane.
Dunque il mammut di Sopochnaya Karga è piuttosto antico rispetto ad altri suoi simili, ma è così ben conservato che, oltre allo scheletro completo, il ghiaccio ha preservato alcune parti molli, incluso il grasso della tipica gobba. Era un giovane maschio di 15 anni, in ottima salute. Chi o che cosa ha ucciso dunque un animale così forte e resistente? La soluzione del giallo ha lasciato di stucco la comunità scientifica, tanto da meritarsi la pubblicazione sul numero di «Science» del 15 gennaio. Le ossa sono state esaminate ai raggi X, ma già a occhio nudo mostrano i segni di ferite inusuali, soprattutto sulla testa e nella zona toracica. L’osso zigomatico è forato da un’arma a punta conica, fatta di osso o di avorio. Altri colpi mirarono invece alla base del tronco, per recidere arterie vitali e uccidere l’animale per dissanguamento. Le lance taglienti furono scagliate con tale vigore da penetrare pelle e muscoli, conficcandosi nelle ossa.
Insomma, si tratta di una ben organizzata scena di caccia, cui seguì la paziente macellazione di ogni parte dell’animale, compresa la lingua accuratamente asportata. Del mammut non si buttava via niente, soprattutto le preziose zanne vennero rotte in modo tale da produrre scaglie appuntite di avorio, a loro volta usate come strumenti per la macellazione della carne. Segno che a quel tempo era all’opera un’intelligenza in grado di trasformare potenzialmente qualsiasi oggetto utile in uno strumento, e di produrre uno strumento a partire da un altro strumento. In assenza di pietre adatte, si ricorreva all’avorio.
Si dimostra così, sorprendentemente, che circa diecimila anni prima di quanto ritenuto finora, già 45.000 anni fa, a una latitudine più settentrionale persino di Capo Nord, quando ancora sopravvivevano altre specie umane come l’uomo di Neanderthal in Europa e l’uomo di Denisova in Asia centrale, gruppi di cacciatori sapiens di origine africana erano in grado di inseguire e abbattere un mammut sulle sponde del mar Glaciale Artico. La datazione precede di 20 mila anni l’ultimo massimo glaciale, cioè il periodo proibitivo, che va da 26 a 19 mila anni fa, in cui l’era glaciale raggiunse il picco.
Chi ha compiuto l’impresa nel grande freddo doveva avere capacità di organizzazione sociale e di coordinamento linguistico notevoli, insieme a tecnologie avanzate per cacciare e proteggersi dal gelo. È chiaro che qui l’evoluzione culturale ha prevalso su quella biologica, permettendo ai nostri antenati di adattarsi a qualsiasi ecosistema terrestre. Homo sapiens divenne una specie cosmopolita e invasiva, capace di creare sublimi opere d’arte (a poche migliaia di anni dopo risale l’arte rupestre recentemente scoperta sull’isola di Sulawesi, ai tropici) e al contempo di lasciare un segno distruttivo sugli ambienti, per esempio in Australia e nelle Americhe, dove all’arrivo dei primi cacciatori sapiens decine di specie di mammiferi di grossa taglia, inermi davanti a un predatore così ben organizzato, furono estinte per sempre.
La scoperta russa potrebbe anche gettare nuova luce proprio sull’arrivo dell’ Homo sapiens in Nord America. Se i cacciatori siberiani erano già in circolazione 45.000 anni fa, non è escluso che possano essersi spinti verso oriente, inseguendo le mandrie di caribù e di mammut, ben prima della fine dell’ultima glaciazione, attraversando la Beringia, cioè il vasto ponte di terra che nei periodi freddi univa l’Asia nord-orientale all’Alaska. L’impressione è che molte storie attendano ancora di essere raccontate sugli antichi spostamenti delle popolazioni umane.